Il marketing è di destra o di sinistra?
O meglio: il marketing può essere di destra o di sinistra, può essere politico?
Occupandosi effettivamente di relazioni tra individui, il marketing può in qualche modo plasmare l’aspetto o l’orientamento della collettività che si costituisce attorno ad un brand o ad un prodotto? E nel farlo può imprimere una direzione fondata su taluni o talaltri valori essenzialmente politici?
Pensando ad alcune celebri campagne sembrerebbe proprio di sì.
Quando pensiamo alle pubblicità di Benetton realizzate da Oliviero Toscani o alle iniziative attuate da molti brand per il Pride Month, ci pare evidente che, al di là del messaggio, la stessa forma della comunicazione sia effettivamente ‘politica’. Le discussioni, i dibattiti, gli scontri, le polemiche: ciò che accade attorno a queste campagne sembra fuoriuscire dall’ambito degli scambi commerciali, interpellando le coscienze individuali, problematizzando il ‘sentire’ collettivo.
Questa ambizione politica del marketing ha spesso un sapore totalitario. “Tutto è marketing”, ho sentito più volte ripetere. D’altronde, ogni disciplina ha tentato questa scalata, dal positivismo in poi, ma la storia ci ha consegnato esperimenti tutt’altro che felici (il darwinismo sociale, per citarne uno).
Mondi ideali e realtà inaccettabili
Eppure, nel caso del marketing ci sembra di trovarci di fronte ad uno strumento meno ‘stringente’ di tutti quei principi che si sono candidati al governo della ragione (e del mondo delle cose umane). I principi ‘spuri’ del marketing (tratti sia dalle scienze esatte che dalle discipline umanistiche), la customer centricity e la stretta relazione con l’innovazione tecnologica ci suggeriscono, se non un’attualità, quantomeno una volontà ed una facoltà ‘politiche’ di questa disciplina.
Indubbiamente, il marketing (le sue teorie, le sue tecniche, la sua prassi) produce affermazioni di significa che ‘ordinano’ la realtà, la strutturano.
Una campagna pubblicitaria può ad esempio raccontare visivamente un rapporto tra individui, può rappresentare (attraverso le proprie simulazioni) un contesto urbano armonizzato con i desideri collettivi, può produrre un discorso attorno a ciò che accade nel mondo - parlando attraverso il brand e tramite slogan, attori, brani musicali, costruzioni grafiche.
Il marketing costruisce un qualche tipo di ‘mondo’, sotto forma di ipotesi, ed è da qui che possiamo ricavare un’ulteriore domanda, sotto certi aspetti cruciale: qual è il rapporto tra questa specie di mondo e la realtà? Il marketing (le sue teorie, le sue tecniche, la sua prassi) propone un’alternativa al reale o si limita ad aderire ai suoi principi?
Il marketing può produrre un qualche tipo di ‘progresso’ sociale e culturale delle società?
Nessuna opposizione, nessun progresso
Ci riesce facile pensare a molte iniziative di marketing come a degli arieti che urtano con forza contro il senso comune.
Ma a chi si rivolgono davvero le campagne alle quali abbiamo fatto riferimento qualche riga più sopra: a chi la pensa diversamente o a chi già aderisce ai valori che le ispirano? Esercitano effettivamente un qualche tipo di convincimento? O si tratta piuttosto di confermare le credenze dell’interlocutore, di rafforzarle?
Il compito del marketing è sedurre, convincere qualcuno a fare qualcosa: è intimamente legato ad una necessità materiale che risponde ad un ordine di cose esistente, la struttura dalla quale il marketing stesso deriva e dipende.
Il marketing raggiunge il suo scopo quando riesce a generare ‘valore’ - un termine che questa disciplina ‘polimorfa’ è tuttavia incapace di mettere in discussione, e che si muove inevitabilmente sullo stesso terreno da cui il marketing stesso germoglia - quello del mercato.
Proprio per questo, il marketing è essenzialmente vuoto, ovvero riempito di volta in volta dei desideri, delle opinioni e dei giudizi di individui che sono sempre potenziali consumatori, che debbono perciò essere ‘accarezzati’ e lasciati liberi di esprimersi. Il messaggio di una campagna pubblicitaria non viene dal brand, ma viene dalla sua audience; la “collettività” del marketing è una buyer persona, emittente e non destinatario di un messaggio solo eventualmente “politico”.
Il lavoro della cultura
L’anima “politica” del marketing è la somma delle convinzioni in individualità, riproposte nei messaggi pubblicitari come su uno specchio che esclude ciò che non si vuole ascoltare, ciò che non si vuole sentire.
“L’ordine” del marketing non è perciò né di destra nè di sinistra, perché è senza passato e senza storia. Esso è tendenzialmente conservatore - e questo non per le capacità e le volontà che possono muovere l’una o l’altra campagna, bensì per il compito assegnato a questa disciplina.
Se deve parlare a una persona di destra rappresenterà un mondo strutturato su principi di destra, se dovrà parlare con una persona di sinistra baserà la propria rappresentazioni su principi opposti.
È la realtà a cui fa riferimento a plasmarne l’identità: il marketing non ne ha una propria, non ha un orientamento.
Torniamo allora alle domande con cui avevamo aperto queste riflessione, aggiornandole: perché ci sembra che l’esposizione di un messaggio sia capace di affermare e di realizzare una differenza rispetto al mondo che consociamo?