Lontano dal cielo, in cammino
Agosto ancora per poche ore, giusto in tempo per riporre le ultime cose.
Una delle fallacie argomentative che mi ha sempre affascinato è quella definita dall’espressione “post hoc, ergo propter hoc” (letteralmente: “dopo questo, e quindi a causa di questo”): un sofisma che stabilisce una relazione causa—effetto tra due avvenimenti per il semplice fatto che uno è avvenuto dopo l’altro.
Ad esempio: se ho ritrovato nella descrizione degli effetti di Mercurio retrogrado (5-27 agosto) una rappresentazione decisamente accurata degli eventi di quest’ultimo mese… posso effettivamente attribuire a questo fenomeno astronomico un’influenza sulla mia esistenza?
Resistete a quello che sto per dire, devo arrivare ad un punto ben preciso.
Parlare di ‘destino’ è complesso e pericoloso. Come ho già avuto modo di evidenziare, si tratta di una parola proibita, il cui uso è soggetto non tanto a un divieto “integrale” quanto piuttosto ad una limitazione dei suoi effetti.
Pronunciare questa parola significa collocare il proprio discorso in uno spazio esterno a quello del pensiero logico-razionale, inibendone così non solo la ‘potenza’, ma anche l’efficacia - ossia la possibilità di esercitare un qualche reale effetto sul mondo.
Viene così definito discorso sul “destino” qualsiasi pensiero che introduce un’eteronomia della volontà, a prescindere dal contenuto: dall’astrologia alla religione, dall’esoterismo all’arte, il significato di questa parola viene disperso in un labirinto di obiezioni e di confutazioni.
Pronunciare questa parola significa dunque situarsi già oltre il limite (esporsi). Questo ex-porre consiste letteralmente in un ‘collocare fuori’, ma non dice ancora nulla sul come, sul cosa, sui suoi effetti. Il destino si può effettivamente ridurre a questo semplice (e rischioso) movimento: porre-fuori qualcosa (o riconoscere qualcosa che già sta-fuori), riconoscendo tuttavia che c’è una relazione tra questo e ciò che ‘sta-dentro’ (che è im-posto).
“Destino” non è dunque astrologia, né religione, né alcuna forma di spiritualità o di pensiero magico. Esso è essenzialmente trascendenza - il permanere di un principio ‘al di là’ del qui e ora.
Heidegger aveva individuato una curiosa somiglianza tra le parole tedesche Geschick (destino) e Geschichte (storia), rilevando in questa il sintomo di un’originaria ‘sovrapposizione’ (o coappartenenza) dei due concetti. Credo che questa somiglianza non riduca tuttavia la storia ad un meccanismo di ricalco di un destino già dato: il ‘destino’ non è fatalismo, né rassegnazione, né tantomeno inazione (come se gli eventi procedessero da sé), bensì ‘principio’ (fine ed inizio) in cui si esercita la nostra volontà.
Siamo sempre più lontani da Mercurio retrogrado, a quanto pare.
La domanda che a me interessa di più, rispetto a ciò che ho provato a dire finora, è tuttavia la seguente: questo principio esiste fuori di noi oppure siamo noi a ex-porlo? Si tratta di qualcosa che ci è estraneo oppure lo produciamo? E la sua realizzazione corrisponde ad un semplice riconoscimento o ad un compimento?
Tutto questo perché?
Perché nelle ultime settimane si sono svolti dei cambiamenti che ho attraversato senza rendermene conto. La consapevolezza è sopraggiunta in un secondo momento, ed in un modo affatto particolare, ovvero non come una ‘spiegazione’ a quello che è accaduto, quanto piuttosto sotto forma di impulso a (re)agire in una specifica direzione.
Ed è stato proprio questo evento che mi ha sorpreso ed incuriosito. Ho perciò approfittato delle mie passeggiate (ormai serali, considerato il clima) per capirci qualcosa di più, ed insistentemente ‘sbattevo la testa’ contro la parola proibita a cui ho dedicato questa newsletter.
Nel frattempo ho inaugurato nuovi progetti, di cui parlerò più avanti (un po’ per scaramanzia, un po’ per timore di confondere le cose: il punto importante è un altro); ho viaggiato, ho iniziato ad imparare un nuova lingua, ho stretto nuove amicizie e ne ho rinsaldate di vecchie. Molte novità, ma tutte con la forma di un ritorno: non una retrocessione ma un puntare i piedi a terra, per tenere il passo e per stabilizzare l’andatura.
Insomma: un altro modo per proseguire il cammino, lontani dal cielo.